Industria in crisi e bisogno di rilanciare i consumi: i produttori statunitensi di biocarburanti corrono a battere cassa da Obama. Con il prezzo del petrolio che si è ridotto di due terzi in sei mesi, l’industria di biocarburanti più grande del mondo, quella statunitense appunto, si ritrova sull’orlo del baratro. Una volta diventati non più così convenienti, infatti, bioetanolo e biodiesel perdono gran parte del loro appeal sul mercato.
E sì che l’industria statunitense gode di privilegi sconosciuti in tutto il resto del mondo. Infatti già l’amministrazione di George W. Bush, che pure si è mostrata per lo più indifferente ai problemi del surriscaldamento globale, aveva puntato fortissimo su questa soluzione, considerata in prospettiva vantaggiosa. Per anni e anni il governo centrale ha finanziato lo sviluppo del mercato e ha addirittura fissato un tetto minimo del 10% di utilizzo di biocarburanti sul totale dei carburanti in commercio.
Proprio questo limite, impensabile in tanti altri paesi del mondo, comincia a stare stretto ai produttori che, vedendo i prezzi calare vertiginosamente, sono costretti ad aumentare la produzione. Obama in campagna elettorale si è dimostrato favorevole alla riconversione di parte della produzione petrolifera verso i biocarburanti e sembra intenzionato a proseguire, almeno in questo ambito, la strada del suo predecessore.
Probabilmente, però, le richieste non potranno essere accolte completamente. I produttori chiedono infatti di passare dall’attuale 10% al 15% di biocarburanti. Un aumento che, dicono, oltre a giovare all’ambiente, produrrebbe migliaia di nuovi posti di lavoro. Tuttavia secondo quanto affermato dal segretario USA all’energia, Steven Chu, il tetto minimo d’impiego di biocarburanti potrebbe attestarsi intorno al 12%. In ogni caso, sembra scontato un intervento, anche perché qualche pezzo grosso ha già cominciato a saltare: VeraSun, uno dei maggiori produttori del paese, è fallito per bancarotta dopo aver perso milioni di dollari nel mercato del mais.